GIORNATA DELLA MEMORIA / “Così mio padre e tanti militari italiani furono internati nei lager per essersi rifiutati di combattere con l’esercito nazifascista”

GIORNATA DELLA MEMORIA / “Così mio padre e tanti militari italiani furono internati nei lager per essersi rifiutati di combattere con l’esercito nazifascista”

C’è un’intervista in cui Fabrizio De Andre’ esprime il suo sogno di voler riparlare almeno una volta con suo padre. Ci ho pensato spesso, perché ho sempre avuto anch’io questo nostalgico rammarico e, tra le tante cose che avrei voluto approfondire c’era questa storia della “prigionia” di cui mio padre non mi aveva lasciato che pochi accenni, poche parole, pochi documenti: una carta geografica dell’Europa con una lunga linea rossa (era il viaggio di ritorno) alcune lettere, poche carte manoscritte, una grammatica tedesca (leggendo la quale, bambino,  avevo memorizzato i numeri tedeschi, i guten Morgen e guten Tag che recitavo ai parenti divertiti).

Nella foto Luigi Lazzari

Mio padre Luigi era un uomo buono, mite, solare e forse per non riaprire ferite dolorose ci aveva risparmiato il racconto di quel periodo drammatico e doloroso della sua vita, dal settembre 1943 all’estate 1945; a tratti, talvolta, improvvisamente, ci diceva qualcosa di quella parte di vita che voleva dimenticare, si lasciava sfuggire qualcosa della Grecia, dove era stato fatto prigioniero dai nazisti dopo l’armistizio, di Cefalonia, dove i tedeschi avevano fucilato migliaia di italiani che si erano rifiutati di consegnare le armi (e non ho mai capito se lui fosse stato tra i sopravvissuti di quella strage), dello Stalag, il campo di concentramento nella Germania nord occidentale, dove era rimasto fino alla fine della guerra, della sporcizia, della malaria, della fame, delle condizioni disumane di quei mesi di reclusione come IMI (Internato Militare Italiano) senza poter ricevere e mandare notizie ai familiari, del viaggio di ritorno, lunghissimo e con mezzi di fortuna, anzi quasi a piedi (un amico di Sant’Oreste mi ha raccontato la tenera e per me commovente scena di mia nonna Silvia, che corre a Porta Valle per riabbracciare il suo Luigino, vestito di stracci, irriconoscibile dopo due anni di stenti) e poi l’ingiustizia di vedersi negato il lavoro al Ministero, dove era prima della guerra e che ora era negato a chi ritornava, come se il fascismo fosse stata sua responsabilità.

Il tarlo di voler conoscere quei fatti mi ha portato poi a documentarmi, a leggere esperienze simili, a consultare l’amplia bibliografia sulla storia dei soldati italiani prigionieri nei Lager nazisti, a capire che la Resistenza non era stata solo la guerra partigiana di liberazione, ma una serie di atti, di scelte, di coraggio individuale e diffuso, a concludere che la nostra democrazia era nata su valori che fondavano una nuova identità nazionale, sulla pace, la libertà, la volontà di vivere una vita serena e normale.

I 650.000 soldati italiani catturati dai nazisti dopo l’8 settembre si chiamavano IMI e non prigionieri di guerra, quindi non avevano diritto alle garanzie degli accordi di Ginevra (ai pacchi della Croce rossa per esempio) e furono trattati come bestie dai tedeschi che li chiamavano traditori e badogliani, in baracche di legno non riscaldate e senza bagni, tra umidità, freddo e malattie, tifo, tubercolosi, polmoniti e pleuriti, gastroenteriti, negli ultimi mesi sotto i bombardamenti alleati, con razioni di cibo irrisorie (una zuppa di rape e pane da dividere in tanti) costretti a racimolare tra i rifiuti bucce di patate e avanzi di cibo. Una vita disumana!

Sottoposti a continue pressioni dai capi nazisti e da emissari fascisti per aderire alla Repubblica di Salò, col miraggio del cibo e della libertà, essi si rifiutarono per il 90%; scelsero la fame, la prigionia, la morte, piuttosto che vendersi a chi ormai consideravano il nemico e il responsabile della grande tragedia della dittatura e della guerra. Eroi silenziosi, il cui valore sarà riconosciuto troppo tardi (il presidente della Repubblica Scalfaro concederà solo nel 1998 la Medali d’Oro al valor militare all’internato ignoto).

La Resistenza non fu dunque una guerra civile tra fascisti e comunisti, ma la rinascita di un popolo intero che rifiutava il nazifascismo, la dittatura e la guerra e che si schierava con coraggio dalla parte della democrazia, della libertà e della pace. Il rifiuto di cui mi parlava mio padre con orgoglio (noi non ci siamo venduti!) fondava il mondo nuovo che è stato conquistato anche con questi atti di coraggio, che fanno dei valori antifascisti i valori dell’unità nazionale.

Mio padre non era comunista; rimpiango ancora quelle discussioni tra noi, quando da giovane anch’io fui preso dal fuoco delle idealità di rinnovamento in quel lontano 1968, e lui mi metteva in guardia. E mi parlava di Stalin, dell’URSS che aveva invaso e comunistizzato gli Stati dell’est europeo (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria), della vergogna del muro di Berlino. Mi sarei accorto molto più tardi che i suoi non erano discorsi di un conservatore ottuso, di un vecchio democristiano, come io a volte, ahimè, presuntuosamente tendevo a considerarlo, ma che le sue parole venivano dalla consapevolezza del valore della Libertà, dei sacrifici e del sangue che erano stati necessari per ricostruire l’Italia.

Quando accettai, nel 1990, di fare il sindaco di Sant’Oreste, dietro la mia scelta c’era  anche la volontà di onorare la memoria di mio padre, e fu forte il rimpianto di non averlo avuto vicino quando cercavo di essergli fedele, sforzandomi di fare il mio dovere civico.                                         Gianni Lazzari

Video a cura di Roberta Migliaccio e Sara Nazzarri Chiara Polcaro / Rete Anpi Flaminia Tiberina

Pubblicato da Bella Ciao

Bella Ciao la voce degli antifascisti / Rete Anpi Flaminia Tiberina